Great Resignation: che cos'è il fenomeno delle grandi dimissioni e quali sono state le cause

Sempre più persone lasciano il proprio lavoro senza avere un piano B, specialmente i giovani. Questo fenomeno è chiamato Great Resignation e ha delle conseguenze non trascurabili sul mondo del lavoro e sull’economia del paese


Il fenomeno delle Great Resignation ha preso piede negli ultimi anni e, secondo alcuni importanti studi, pare che i promotori principali siano coloro che fanno parte della Generazione Z, detti anche zoomers. Ad accompagnare questa cultura di dimissioni volontarie si è aggiunto anche quello che nei social è conosciuto come Quiet Quitting. In questo articolo faremo un po’ di chiarezza sulla realtà dei due fenomeni, spiegando i motivi di questa crisi lavorativa e fornendo qualche consiglio utile per cercare di risolvere il problema, a partire dalla creazione di un buon welfare aziendale, uno dei migliori strumenti per incentivare e motivare i lavoratori di ogni settore.

Che cosa si intende per Great Resignation?

In inglese significa letteralmente grandi dimissioni. Già alla fine del 2022, l’Osservatorio sul precariato INPS aveva dato l’allarme su questo fenomeno dopo aver riscontrato che rispetto al 2021 le dimissioni erano aumentate di oltre un terzo.


È stato riscontrato che sono diversi i fattori che portano un lavoratore a dimettersi anche senza aver trovato prima un lavoro alternativo: la ricerca del work-life balance, burnout scaturiti da ambienti di lavoro dove il benessere dei dipendenti non viene preso in considerazione, il desiderio di poter gestire la giornata di lavoro con tempi e modalità più flessibili e altre ancora. Ma quali conseguenze ha avuto e continua ad avere sulla società?

Qual è la portata di questo fenomeno in Italia e nel mondo?

Complice delle Great Resignation è stata senza dubbio la pandemia di Covid-19, che ha fatto sì che le persone rivalutassero le loro priorità e i loro bisogni. È possibile rilevare questo fenomeno a livello mondiale. Ma partiamo dal nostro paese.


Randstand ha pubblicato i risultati di un monitoraggio secondo il quale il 30% circa dei lavoratori dipendenti italiani starebbe attivamente cercando un nuovo impiego. Ciò significa che a essere insoddisfatto della propria posizione lavorativa in Italia è una persona su tre. Se poi prendiamo in considerazione i giovani nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, il numero di lavoratori insoddisfatti aumenta al 38%. Ma non solo: il 34% di questa fascia di popolazione ha dichiarato che preferirebbe lasciare il lavoro su due piedi ed essere disoccupati piuttosto che dover rinunciare alla propria serenità, essere infelici sul posto di lavoro o non avere il tempo e la tranquillità necessari per godersi hobby, amici o famiglia. Mentre l’insoddisfazione sale ancora di più nei giovani lavoratori tra i 18 e i 34 anni, fascia in cui il malcontento supera il 50% e in cui la qualità della vita diventa ancora più prioritaria.


Da questi numeri risulta evidente come sia quindi la cosiddetta Generazione Z, ovvero di coloro nati tra la metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila, a rappresentare il campione più ampio di lavoratori insoddisfatti.


Ma la situazione è uguale negli altri paesi del mondo? Purtroppo, sì. Ad agosto 2021, secondo i dati raccolti dal Dipartimento del Lavoro degli USA, si è arrivati a toccare il valore record di 4,3 milioni di dipendenti americani che hanno deciso di abbandonare volontariamente il posto di lavoro. Nel Regno Unito, invece, a ottobre 2021, molte aziende avevano già lamentato una carenza di personale che rischiava di compromettere il loro operato e la situazione ad oggi non è per nulla migliorata.


In generale, a livello mondiale, pare che il 40% dei lavoratori abbia intenzione di cambiare lavoro nei prossimi 4-6 mesi. A dirlo è uno studio di McKinsey, che ha rivelato inoltre che il 53% dei datori di lavoro ha riscontrato un incremento del turnover aziendale rispetto agli anni passati e che il 64% crede che il problema possa continuare o addirittura peggiorare nei prossimi sei mesi, andando a intaccare inevitabilmente il mercato del lavoro.


Stando alle stime di McKinsey, che chiama il fenomeno Great Attrition, le imprese avranno una grossa gatta da pelare ed è per questo motivo che è diventato prioritario trovare la soluzione a questo problema il prima possibile.

Quiet Quitting, Great Resignation e Work-life balance: esiste una correlazione?

Ma la Great Resignation non è l’unica preoccupazione delle aziende. Nell’ultimo periodo, infatti, si è assistito a un altro fenomeno che si è espanso a macchia d’olio grazie all’hashtag #quietquitting e che ha ottenuto oltre 8 milioni di visualizzazioni su TikTok. Ma di cosa si tratta?


Letteralmente vuol dire abbandono silenzioso, ma questa traduzione potrebbe evocare un significato ambiguo e in un certo modo fuorviante. Secondo un sondaggio effettuato da YouGov su un campione di mille impiegati statunitensi, il 56% non aveva mai sentito il termine prima di allora e il restante 44% aveva opinioni contrastanti sul suo significato, da chi pensava che si riferisse a coloro che fanno il minimo indispensabile sul posto di lavoro per non essere licenziati a chi pensava che descrivesse i dipendenti che rifiutano di svolgere attività extra senza che sia previsto il pagamento dello straordinario.


Per fare un po’ di chiarezza, possiamo dire che il Quiet Quitting, detto anche coasting, si riferisce al fatto che sempre più dipendenti danno sì priorità alle attività lavorative da svolgere in azienda, ma soltanto a quelle che possono rientrare all’interno dell’orario di lavoro stabilito dal contratto con il quale sono stati assunti. Questo perché, come spiegato, si dà molta più importanza al work-life balance, ovvero all’equilibrio fra la sfera professionale e la vita privata, che rientra ormai fra le necessità e le condizioni di impiego di maggiore rilievo per la nuova generazione di lavoratori, ancora di più dello stipendio.


Si potrebbe quindi dire che il Quiet Quitting stia all’opposto dell’engagement aziendale, che sia frutto dei sempre più frequenti episodi di burnout e che porti in molti casi i lavoratori a sceglierlo come alternativa alle dimissioni.


Ma cosa possono fare le aziende per ridurre il turnover aziendale e per far soddisfare le esigenze dei propri dipendenti?

Contrastare l'aumento delle dimissioni volontarie: l'importanza del welfare aziendale

Secondo una ricerca svolta dalla Harvard Business Review, l’incremento delle dimissioni volontarie e del fenomeno del Quiet Quitting non è da attribuire alla mancanza di volontà da parte degli impiegati di lavorare con maggiore coinvolgimento nei confronti dell’azienda, quanto invece alla capacità del management di instaurare un rapporto con i dipendenti, di farli sentire appagati e di creare un ambiente di lavoro sereno e stimolante.


Cosa si può fare quindi per evitare che si verifichino “grandi dimissioni” e quiet quitting? Quali strumenti esistono per dare supporto alle aziende e ai lavoratori in modo da favorire il più possibile la sostenibilità lavorativa?


Investire nel welfare aziendale è sicuramente uno degli strumenti più utili per ovviare al problema: grazie a un piano di welfare ben strutturato e ai relativi benefit, infatti, gli impiegati avranno modo di sentirsi più gratificati, compresi e, di conseguenza, più sereni. È possibile scegliere fra una vastissima gamma di benefit in grado di soddisfare tutte le esigenze aziendali, dai buoni pasto elettronici ai buoni acquisto fino a una lunga serie di fringe e flexible benefits. Vuoi saperne di più? Dai un’occhiata alla piattaforma di welfare aziendale di Day!


Altre soluzioni per fermare l’aumento delle dimissioni volontarie possono essere:

  • Impostare gli obiettivi: quando si ragiona per obiettivi e non per task da concludere entro la giornata o in tempi eccessivamente ristretti si fa in modo che i dipendenti si sentano meno stressati e più motivati;

  • Favorire il dialogo fra manager e dipendenti: chi ricopre un ruolo manageriale dovrebbe prestare molta attenzione alle relazioni fra colleghi e a mantenere un dialogo costruttivo, aperto e costante con tutti i collaboratori. Ad esempio con feedback sul lavoro svolto, con la condivisione di una vision comune ed evitando di assegnare compiti che non spettano o che richiedano di sacrificare il proprio tempo libero;

  • Introdurre il lavoro ibrido: in quest’era digitale, lo smart working e il lavoro da remoto fanno ormai parte delle abitudini dei lavoratori e, dopo il periodo di pandemia da Covid-19, rinunciarvi può risultare complicato. Un altro modo per assecondare le esigenze di flessibilità dei dipendenti può essere quello di accettare le richieste di organizzazione verticale della settimana lavorativa o di part time;

  • Puntare sulla formazione: per stimolare i dipendenti ed evitare che questi siano passivi e apatici nelle attività lavorative quotidiane, è fondamentale puntare sulla loro crescita professionale attraverso l’acquisizione di nuove competenze e responsabilità. Avere delle prospettive per il futuro della propria carriera permette infatti di affrontare il lavoro con più grinta e motivazione.